Recensione The Dark Pictures: The Devil in Me, solito horror ma con qualche novità interessante

L’ultimo capitolo della The Dark Picture Anthology, The Devil in Me, mischia realtà e finzione in un horror uscito a metà.

Sviluppata dallo studio dietro Until Dawn, la serie di videogiochi The Dark Pictures Anthology si è affermata grazie al suo gameplay a scelta multipla e alle sue trame ambientate in diversi luoghi ed epoche. Dopo il relitto di una vecchia barca, i resti di una città morbosa e le rovine di un tempio sepolto, l’orribile antologia torna alle origini e immerge i giocatori nel cuore di un hotel che è stato al centro dellla cronaca alla fine del XIX secolo. Telecamera, e… azione!

La curiosità è un difetto o un pregio? Mentre la domanda rimane, i giovani documentaristi di The Dark Pictures: The Devil In Me hanno fatto la loro scelta! Mentre l’audience del loro show è in caduta libera, hanno ricevuto un misterioso invito dal proprietario di un hotel. Ma non un hotel qualsiasi! Il luogo è una replica esatta del “Castello degli omicidi” reso famoso da H.H Holmes, il primo serial killer americano. Per il loro programma in crisi, questa è un’opportunità d’oro! Telecamera in mano, potranno sprofondare nei corridoi dell’edificio, filmare ogni angolo e quindi far scoprire un hotel unico a una generazione in cerca di emozioni forti. Ma cercando di ottenere successo a tutti i costi, a volte arriviamo a bruciarci.



Come si gioca The Dark Pictures: The Devil in Me

Fedele alle sue origini, The Dark Pictures: The Devil in Me si basa sui fondamenti che hanno fatto il successo della serie: un gruppo di potenziali vittime, un ambiente tutt’altro che idilliaco e una serie di misteri da chiarire attraverso varie interattività (esplorazione di stanze, mobili da spingere, analisi di documenti, recupero di oggetti da collezione…). 

Come negli episodi precedenti, ogni individuo ha la propria personalità e la trama non è mai avara in tensione tra i diversi membri. D’altra parte, e per la prima volta, gli sviluppatori hanno incorporato un inventario per ciascuno dei personaggi. Concretamente, i protagonisti possono utilizzare strumenti dedicati. Erin ad esempio ha un microfono che le consente di catturare i suoni, il cameraman Mark ha una macchina fotografica per catturare determinati momenti, Chris, nel frattempo, è in grado di aprire cassetti bloccati con un semplice biglietto da visita, ecc. Questo non rivoluziona la formula, ma contribuisce a una migliore immersione e alla sensazione di essere meno guidati, soprattutto quando si gioca nelle modalità di difficoltà più alte.

Un altro notevole miglioramento rispetto ai precedenti capitoli sono i movimenti. I personaggi possono correre, saltare, arrampicarsi e il gameplay, nel suo complesso, ha guadagnato molto più flessibilità. Certo, le animazioni sono sempre (molto) rigide e non sfuggono alle sequenze di script, ma l’adrenalina è ora più pronunciata.

Senza rivelare gli eventi che si verificheranno nell’edificio, puoi immaginare che i luoghi siano tenuti da uno strano personaggio, Granthem Du’Met. Ricco, recluso e totalmente ossessionato dal personaggio di H.H Holmes, è ovviamente al centro della sceneggiatura e ci vuole molta calma per prendere la decisione giusta. Alcune scelte sono, come al solito, molto decisive e hanno un impatto diretto sulla progressione del giocatore e sul destino dei personaggi che incarna. 

Siamo immersi in un’atmosfera soffocante e il The Devil in Me gioca costantemente con i punti di forza del cinema di genere: la penombra, le telecamere soggettive, l’ansia permanente, ecc. La componente horror funziona, ma non possiamo fare a meno di rimpiangere, ancora una volta, alcuni elementi che non riescono ad essere coerenti con la storia.

I limiti e problemi del gioco

Ambientazioni realizzate con cura, diramazioni efficaci, storie multiple… Supermassive Games conosce gli ingredienti a memoria, ma non possiamo fare a meno di paragonare The Devil in Me a The Quarry. Entrambi i giochi sono una creazione dello stesso studio e troviamo alcuni difetti, come la mancanza di espressione dei volti a volte e sguardi un po’ superficiali.

Possiamo anche rimpiangere i cliché visti e rivisti nell’universo dei videogiochi. Il codice per aprire una stanza, il mobile che permette di salire, la chiave che apre una porta chiusa… Troppo facile, troppo classico diranno alcuni, anche se si tratta di un hotel con innumerevoli stanze. Ma, a nostro avviso, il problema principale, oltre a una certa mancanza di empatia per i personaggi (perché sono così fastidiosi e stereotipati?), è l’assenza globale di ritmo. Manca una carica emotiva che permetterebbe di portare The Devil in Me allo stesso livello di House of Ashes o The Quarry.

Sentiamo arrivare certi eventi e a volte notiamo un distacco totalmente incomprensibile da parte di alcuni individui rispetto a ciò che stanno vivendo. Questo rompe l’immersione mentre il luogo ci si presta meravigliosamente al gioco del “gatto e del topo”, con un proprietario a cui piace giocare con i nervi dei nostri protagonisti.

Tuttavia, i problemi della telecamera sono meno numerosi che in passato e bisogna ammettere che ci immergiamo con piacere, nonostante i difetti del titolo, in questo universo inquietante e impregnato di un’architettura della fine del XIX secolo. Inoltre, e il game director lo ha sottolineato durante le interviste, è interessante avere un antagonista che non è un mostro nel vero senso della parola, ma un essere umano disturbato. Che ogni personaggio abbia anche una competenza (regista, tecnico del suono, animatrice…) porta un vantaggio, soprattutto perché alcuni oggetti possono essere persi, rotti o dati ad altri protagonisti. Questa è una lettura che non avevamo nelle parti precedenti, ed è piuttosto efficace.

Modalità co-op e multiplayer di The Dark Pictures: The Devil in Me

Come in precedenza, The Devil in Me offre la possibilità di fare la campagna con un amico online o di iniziare, in locale, riunendo quattro persone. Ognuno gioca a turno cercando di sventare i piani dell’assassino e questo crea un’atmosfera che può essere perfetta come parte di una serata diversa dal solito.

Considerazioni finali

È vero, il gioco di Bandai Namco soffre di qualche piccola magagna, ma ancora una volta, The Dark Pictures continua la sua ascesa portando un ambientazione ben pensata e alcuni miglioramenti interessanti. L’idea intorno agli oggetti sarebbe potuto essere più avanzata, ma è un’aggiunta da mantenere.

Le meccaniche e gli enigmi, invece, sono un po’ troppo basilari per risultare davvero piacevoli. A nostro avviso, non ha lo stesso pathos ed appeal di alcuni dei suoi predecessori, ma gli appassionati della Dark Pictures Anthology e gli amanti delle esperienze horror dovrebbero comunque puntare questo episodio con interesse. Può essere macchiato da diversi difetti, però The Devil in Me è comunque interessante per i fan del genere.

The Dark Pictures: The Devil in Me
Pur essendo fedele al franchise The Dark Pictures, The Devil in Me cerca di innovare incorporando un sistema di inventario e personaggi con competenze concrete. Anche grazie al primo serial killer degli Stati Uniti, il gioco riesce a distillare un’atmosfera interessante con il suo “Castello degli omicidi”. Sfortunatamente, e sebbene siamo curiosi del destino di ciascuno dei protagonisti, il titolo fatica a convincere totalmente. La storia impiega un po’ di tempo per prendere il via, il ritmo è un po’ troppo lento – nonostante alcune scoperte simpatiche – e si prova poca empatia per i personaggi, stereotipati come non mai. Se aggiungiamo un gameplay che accumula cliché visti e rivisti, The Devil in Me non ha la stessa qualità di scrittura di un The Quarry o anche di una House of Ashes. Nonostante tutto, la formula funziona grazie all’ambientazione ispirata a un fatto reale e a un finale ricco di tensione.
Pro
+ Granthem Du’Met davvero interessante
+ L’hotel, lugubre e misterioso
+ Tutti gli ingredienti del gioco horror
+ Il mix di fatti reali e finzione
+ Il sistema di inventario per personaggio
+ L’atmosfera davvero coinvolgente
Contro
– Animazioni troppo rigide
– Alcuni personaggi têtes-à-claques
– Ritmo spesso lento
– La saga comincia a perdere mordente
– Enigmi privi di originalità
– Una messa in scena a volte forzata

Riccardo Ferrari: Studente di farmacia di giorno e scrittore di notte. Caporedattore, coordinatore e gestore delle componenti social e di pubbliche relazione di una piccola realtà: Natural Born Gamers. Nato con un joypad della prima PlayStation in mano e cresciuto con Final Fantasy, Metal Gear Solid e Resident Evil. Da lì non ha mai abbandonato il mondo videoludico, ho abbracciato anzi nuove passioni come il cinema, le serie tv ed il mondo della tecnologia.
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