In questi giorni circola la notizia della nuova tassa sul web che sta destando preoccupazione tra gli italiani, su cui bisogna fare chiarezza.
In un cambiamento generalizzato, trasformazioni e novità importanti con una forte spinta complessiva alla tecnologia, all’uso di prodotti digitalizzati e più in generale verso un sistema che tende ad essere sempre più “online”, è chiaro che ci sono pro e contro. Questo non riguarda quindi solo benefici ma anche un altro aspetto di cui, necessariamente, bisogna prendere atto.
La notizia della web tax di cui tutti parlano è vera ma è indispensabile delinearne i contorni per non fare confusione e non generare il panico. Ci sono tasse da pagare ma è importante capire a quanto ammontano e soprattutto chi dovrà farlo e in quali contesti.
Web Tax: cos’è la nuova tassa e chi dovrà pagarla
Il nuovo nome che circola è web tax e ha subito destato preoccupazione perché rimanda appunto all’online e quindi ad una tassazione che prima non esisteva e che il 2025 porterà nel settore digitale. La Legge di Bilancio contiene degli elementi che sono relativi proprio al settore digitale e nasce dall’esigenza di andare a operare in un mercato nuovo e in espansione.
Con “web tax” in Italia si fa riferimento alla digital service tax ovvero una tassa che viene pagata sui servizi digitali, è del 3%. Questa è stata sempre un onere fiscale per le aziende e continuerà ad esserlo, in passato era rivolta solo a chi andava oltre una certa soglia, oggi sta cambiando e la sua applicazione nel 2025 potrebbe essere più estesa. Il problema è che si sta parlando allo stesso modo della tassazione relativa alle criptovalute, chiamandola comunque web tax. Quindi hanno iniziato a dilagare informazioni circa questa tassazione al 43% e da qui è nata la confusione e anche la paura di una nuova tassa da pagare.
Questa è una misura relativa alle attività digitali, come spiegato dal ministro Giorgetti che ha chiarito “Tra le misure relative alle attività digitali si prevede l’incremento della tassazione sulle plusvalenze realizzate nello scambio di criptovalute, che dall’attuale 26% passerà al 42%. La diversa aliquota applicata a diverse forme di investimento e al risparmio, già prevista dall’ordinamento, risponde alla logica di premiare le caratteristiche di un investimento paziente e di lungo termine” ma riguarda unicamente le criptovalute e nulla più, quindi a meno di non avere un’azienda che deve pagare la digital service tax o di criptovalute con plusvalenze, i cittadini non dovranno pagare nulla in relazione ai servizi digitali.